iArticolo revisionato dalla nostra redazione clinica
pubblicato il 15.01.2025INDICE
La questione del divorzio, della separazione dei genitori è un evento in cui confluiscono molteplici variabili individuali e contestuali e che quindi, può provocare nei figli differenti risposte emotive e comportamentali.
I figli di genitori separati possono sperimentare una crisi temporanea, una perturbazione, prima di ritrovare un nuovo equilibrio oppure sperimentare una sensazione di tensione cronica che può contaminare la qualità delle loro vite anche a distanza di molti anni.
In altre parole, le difficoltà possono manifestarsi con più intensità a ridosso dell’evento divorzio per poi tendere a sciogliersi oppure accompagnare la vita intera come aggrovigliato, più o meno latente, di dolore. Dolore che si nasconde tra le righe, striscia nei pensieri e nei comportamenti del protagonista del racconto che segue. Un protagonista che si sente nessuno ma che potrebbe essere chiunque di noi.
Storia di un divorzio
Mio padre è un mago. L’ho scoperto quando avevo 5 anni. Mentre apre le carte a ventaglio mi dice di sceglierne una dal mazzo senza fargliela vedere. Prendo quella che per me è la più difficile da indovinare e la guardo di nascosto, una donna di picche. E adesso rimettila dentro, dice. Poi mischia quelle Tally-ho blu come i bari nei film, con la mano sinistra ferma e la destra che ne pesca su un po’ e ne butta giù un altro po’. Taglia il mazzo e frusta le due metà per riunirlo. Mi chiede di soffiare. Io soffio. Indice e medio girano la prima. Il pollice la striscia sul tavolo. Donna di picche.
Mia madre è nata in Francia. E non ha mai perso del tutto quell’accento che addolciva le parole e scivolava le frasi. Una morbidezza linguistica di nascita che si frantumava nel suo carattere così rigido e spigoloso. Ma era anche una creativa. Ad esempio, quando avevo 8 anni e, secondo lei, mi stavo imbamboland’ davanti alla televisione, ci teneva a presentare tutta una serie di controindicazioni pseudoscientifiche all’uso, a suo parere smodato dello schermo, in ordine di gravità crescente.
Prima menzionava l’offuscamento della vista come effetto collaterale dei cartoni animati (dopo mezz’ora), poi sottolineava i rischi cognitivi, concentrandosi su presunte future compromissioni di attenzione, linguaggio e memoria (da un’ora a un’ora e mezza) e alla fine, stanca e disinibita (dopo l’ora e mezza) urlava: <<vuoi farti cadere gli occhi oui?!>>.
Nonostante quell’educazione basata sulla paura e sulla responsabilità individuale mi scuoteva, lasciandomi comunque dei dubbi di veridicità su ciò che avevo appena ascoltato, non aveva alcun effetto immediato, così, mia madre, si rivolgeva al suo amico più intimo e importante. Diceva che avrebbe telefonato a Gesù. Perché lei aveva il suo numero di telefono. Lo urlava andando in cantina e, pochi minuti dopo, non solo la tv ma anche tutte le luci di casa si spegnevano. E io rimanevo solo, nel buio della mia ingenuità, triste e incerto riguardo quelle amicizie materne così altolocate. Quindi, confuso, impotente e spaventato andavo a dormire. Allo stesso modo mi svegliavo e andavo a scuola, in terza elementare prima, alle medie dopo. Al liceo dopo ancora.
A scuola non mi sono mai sentito a mio agio. Troppe persone. Troppi colori. Troppa felicità e voglia di scoperta. Mi sono sempre sentito goffo. Impacciato mi muovevo tra i banchi e nelle relazioni, cercando di nascondermi. Nascondermi dagli altri e da me stesso. Un me stesso che ho sentito sempre più interrotto, mancante di qualcosa. Spezzato. Barcollavo insicuro in cerca di un appiglio. Non mi piaceva parlare, preferivo pensare. Indugiavo. Imbranato a scuola e nello sport cercavo di sopravvivere. Nelle sabbie mobili della mia esistenza mi agitavo e avevo la sensazione di andare sempre più a fondo. Mi sentivo una nullità. Quando gli insegnanti mi chiamavano tremavo così tanto che avrei voluto cancellare il mio nome dal registro per smettere di esistere. Tremavo sempre di più e sudavo. Faceva freddo poi. Il freddo della solitudine. Il ghiaccio della paura di vivere. Il respiro era sempre più corto. I battiti sempre più forti. Le dita delle mani tremavano e più le guardavo più il cuore sbatteva nel petto. Quasi volesse uscire. Implorava di uscire da quel corpo tremante e senza fiato. Il rumore del cuore era così assordante e il respiro così strozzato che riempirono la testa vuota di pensieri. La riempirono di paura. Della paura di vivere. E della paura di morire. In un corto circuito esistenziale così lucido e così confuso allo stesso tempo. Il mio primo attacco di panico fu terribile.
Quella donna di picche sul tavolo non fu l’unica magia di mio padre. Lui sapeva sparire e riapparire senza un mantello. Sapeva far preoccupare mio nonno e mia nonna per me senza dire nulla. Sapeva far piangere mia madre al telefono. E sapeva promettere. E sapeva non mantenere le promesse. Con il tempo le sue sparizioni si fecero sempre più lunghe e vuote che provai a dimenticarlo. Pensando sempre a lui. Quando mia madre mi disse che nel pomeriggio avremmo incontrato mio padre, al parco, lo chiamò per nome. Vuole vederti, disse. Lasciando tutto intorno una scia di solennità e impotenza che mi stordì. Avevo 15 anni e i capelli corti.
E nel parco, camminando sulla terra battuta, si alzavano nuvole di polvere. C’erano gli alberi di pino e c’era qualcosa che ci legava, un filo invisibile di discendenza. Il colore degli occhi. Il cognome. Più mi avvicinavo a lui, più perdevo qualcosa. Il respiro prima, le gambe dopo. Un masticato ‘iao uscì dalla mia bocca. Non riuscii a capire cosa disse, perché vederlo, la sua immagine, mi distraeva dal reale. Dilatava il tempo e piegava lo spazio. Sembrava non vero. Un posticcio paterno. Un padre pasticciato. Un uomo maldestro che non sapendo cosa fare mi fece vedere una mia foto appena nato che conservava nella sua carta d’identità. Come a dire fai parte di me, per me sei importante. Così importante che ti tengo sottovuoto, così non marcisci. Come si fa con il formaggio. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Al parco, tra nuvole di polvere, alberi di pino e capelli corti.
Alla fine mio padre aveva ragione perché era così che mi sentivo, sottovuoto. Senza aria. Ricoperto da una pellicola così aderente che non riuscivo a muovermi e a respirare. Incastrato in una busta, il mondo era torbido e distante intorno a me. Le persone sfocate. I legami bui e inafferrabili. Avrei potuto odiarlo. O almeno essere arrabbiato con lui. Ma non ci sono mai riuscito. Come si può odiare qualcuno che non conosci? Qualcuno di così inafferrabile? Come si poteva odiare un padre sperando ogni giorno di incontrarlo per caso? Me la sono presa con mia madre però. A lungo. Con la sua rigidità. Con le sue regole. E con le sue punizioni. Con la sua incapacità di connettersi a me, lasciandomi solo. In quella busta. A casa non si parlava mai di lui. Niente di niente. Neanche un’alzata di sopracciglio. Quel silenzio che nasce come protettivo e si trasforma in un mostro sempre più grande e invisibile. E io non chiedevo. Era un tabù. Come potevo rompere quel silenzio? Come potevo rompere quel silenzio quando non c’erano parole per quel dolore.
Quali possono essere gli effetti di un divorzio sui figli?
Nonostante le differenze individuali, il vissuto unico di ognuno, le difficoltà più persistenti e comuni nei figli di genitori divorziati, riguardano:
- disturbi della condotta;
- problemi di rendimento scolastico;
- aggressività;
- comportamenti impulsivi e antisociali;
- difficoltà con le figure depositarie di autorità come gli insegnanti, i genitori e anche con i coetanei.
Ma le difficoltà non sempre si manifestano in un comportamento osservabile, decifrabile. Il disagio infatti può non emergere all’esterno rimanendo celato, nascosto, interiorizzato. In tal senso la traiettoria sintomatica può riguardare disturbi d’ansia, presenza di sintomi depressivi, difficoltà nella gestione dei legami e del distacco. Può succedere che i figli di genitori divorziati abbiano minori possibilità di rimanere in contatto con il genitore non affidatario e la sua famiglia d’origine, verificandosi così un progressivo disengagement, ovvero un graduale allontanamento e distacco psicologico da quel ramo familiare.
Sostanzialmente una questione di distanza fisica ed emotiva che può portare i figli a sperimentare sentimenti di perdita e abbandono e che potrebbe produrre difficoltà nello stabilire relazioni affettive significative e durature nelle quali poter fare esperienza del dare, del ricevere e del confrontarsi.
Si parla di sleeping effect, un effetto ritardato del divorzio, quando riemergono le problematiche relative alla relazione di coppia vissuta e interiorizzata da “figlio spettatore” (<<a casa i miei o litigavano o stavano in silenzio>>). Tali problematiche relazionali, rimaste latenti negli anni, potrebbero riaffiorare quando la costruzione-esplorazione dei legami si ripropone come compito evolutivo in età giovane-adulta.
Come tutelare i figli di genitori separati?
La variabilità degli effetti del divorzio sui figli può essere moderata dalla presenza di elementi protettivi. I figli mostrano livelli di benessere maggiori se la qualità della vita non diminuisce drasticamente dopo il divorzio e se percepiscono una continuità nella cura genitoriale. Tale continuità, fondamentale e decisiva per la traiettoria evolutiva del figlio, viene definita co-parenting, cioè la capacità dei genitori di mantenere tra loro una relazione collaborativa e di garantire al figlio la continuità della cura da parte di entrambi dopo il divorzio, come a dire <<anche se non stiamo più insieme, saremo per sempre mamma e papà>>. Al contrario l’aggressività e l’ostilità tra i genitori quale tratto distintivo della relazione si correla nei figli a problematiche caratteriali, emotive e sociali.
Di certo il coinvolgimento dei nonni rappresenta un fattore di protezione contro gli effetti negativi della separazione genitoriale. I nonni infatti possono garantire relazioni all’insegna della continuità e della stabilità proprio quando le relazioni familiari assumono caratteri di fragilità e precarietà. A condizione che non si schierino contro l’altro genitore, i nonni, possono svolgere una funzione di compensazione, fornendo supporto affettivo in un momento in cui i genitori, in fase di tensione più o meno critica, difficilmente riescono a fornire il sostegno di cui i figli hanno bisogno.
Cosa non fare?
L’importanza di mantenere i contatti con la propria storia generazionale si può perdere nel conflitto coniugale e il figlio, schiacciato dai conflitti di lealtà (<<Se mamma e papà litigano e non si parlano, io da che parte devo stare?>>), ne esce eliminando uno dei genitori e l’ambivalenza della relazione con lui, finendo così per disprezzare il genitore e l’appartenenza alla sua stirpe.
Infatti, il mancato accesso all’altro genitore si traduce quasi sempre con il mancato accesso all’altra stirpe, riproducendo in questo modo la scissione avvenuta nella coppia genitoriale con il divorzio. Possiamo assistere allo schieramento dei nipoti dalla parte dei nonni che li hanno cresciuti e a un annullamento degli altri nonni tendendo a dichiarare apertamente la propria appartenenza a una sola stirpe familiare.
Un altro aspetto critico dell’esercizio della genitorialità in caso di divorzio è la tendenza del legame genitore figlio a strutturarsi su un piano orizzontale anziché gerarchico. Ciò fa sì che frequentemente ai figli sia attribuito un ruolo di supporto del genitore rimasto solo, secondo modalità che non rispettano le esigenze di crescita del figlio. Infatti se l’adulto è sullo stesso piano del figlio, lo priva di quel punto di riferimento di cui ha bisogno per appoggiarsi, crescere e costruire la propria identità.
Si parla di parentificazione per descrivere la tendenza dei genitori ad adultizzare i figli, delegando loro un ruolo genitoriale, soprattutto quando sono presenti fratelli e/o sorelle. La parentificazione è quindi il comportamento adottato da uno o entrambi i genitori, in modo più o meno consapevole, con il quale l’adulto diventa oggetto di attenzione e cura da parte del figlio. Per semplificare, è come se si ribaltasse l’attaccamento e i figli diventassero genitori dei loro genitori (<<Sono stata la madre di mia madre>>).
Al contrario un genitore può sentirsi solo (o realmente esserlo) nella crescita e nell’educazione del figlio, essere in apprensione per i suoi comportamenti, le sue abitudini e il suo sviluppo, attivando così un controllo non flessibile su di lui con l’intenzione di proteggerlo. In altre parole, un sistema monogenitoriale potrebbe mettere in piedi una struttura educativa troppo restrittiva nei confronti del figlio e quindi inefficace, mettendo in scena, con le regole rigide e non spiegate, il dramma della propria preoccupazione.
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